Beppe Fenoglio

La sposa bambina

Catinina del Freddo era di quella ragazza che da noi si marchia col nome di mezzi zingari perché mezza la loro vita la passano sotto l’ala del mercato.

Proprio sotto l’ala si trovava, a tredici anni giusti, a giocare coi maschi a tocco e spanna, quando sua madre le fece una chiamata straordinaria.

«Lasciami solo più giocare queste due bilie!» le gridò Catinina, ma sua madre fece la mossa di avventarsi e Catinina andò, con ben più di due bilie nella tasca del grembiale.
A casa c’era suo padre e sua sorella maggiore, tra i quali vennero a mettersi lei e sua madre, e così tutt’insieme fronteggiavano un vecchio che Catinina conosceva solo di vista, con baffi che gli coprivano la bocca e nei panni un cattivo odore un po’ come quello dell’acciugaio. I suoi di Catinina stavano come sospesi davanti al vecchio, e Catinina cominciò a dubitare che fosse venuto per farsi rendere ad ogni costo del denaro imprestato e i suoi l’avessero chiamata perché il vecchio la vedesse e li compatisse.
Invece il vecchio era venuto per chiedere la mano di Catinina per un suo nipote che aveva diciotto anni e già un commercio suo proprio1. Sua madre si piegò e disse a Catinina: «Neh2 che sei contenta di sposare il nipote di questo signore?»

Catinina scrollò le spalle e torse la testa. Sua madre la rimise in posizione: «Neh che sei contenta, Catinina? Ti faremo una bella veste nuova, se lo sposi.»
Allora Catinina disse subito che lo sposava e vide il vecchio calar pesantemente le palpebre sugli occhi. «Però la veste me la fate rossa,» aggiunse Catinina.
«Ma rossa non può andare in chiesa e per sposalizio. Perché ti faremo una gran festa in chiesa. Avrai una veste bianca, oppure celeste.»
A Catinina la gran festa in chiesa diceva poco o niente, quella veste non rossa già le cambiava l’idea, per lo scoramento si lasciò piombare una mano in tasca e fece suonare le bilie.
Allora la sorella maggiore disse che le avrebbero portato tanti confetti; a sentir questo Catinina passò sopra alla veste non rossa e disse di sì su tutto. Anche se quei confetti non finivano in bocca a lei.
Si sposarono alla vicaria di Murazzano, neanche un mese dopo. Lo sposo dava alla vista meno anni dei suoi diciotto dichiarati, aveva una corona di pustole sulla fronte, più schiena che petto, e certi occhi grigi duretti. Fecero al Leon d’Oro il pranzo di nozze, pagato dal vecchio, e dopo vespro partirono. C’era tutto il paese a salutar Catinina, e perfino i signori ai loro davanzali.

Lo sposo, che era padrone di mula e carretto, aveva giusto da andare fino a Savona a caricar stracci, che era il suo commercio, e ne approfittava per fare il viaggio di nozze con Catinina.
Alla sposa venne da piangere quando, salita sul carretto, dominò di lassù tutta quella gente che rideva, ma le levò quel groppo un cartoccio di mentini che le offrì una donna anche lei della razza dei mezzi zingari. Alla fine partirono, ma ancora a San Bernardo avevano il tormento di quei bastardini che fino a ieri giocavano alle bilie con la sposa. Quantunque lo sposo non tardasse a girare la frusta.

Viaggiavano sulla pedaggera e ne avevano già ben macinata di ghiaia, e Catinina non aveva ancora aperto bocca se non per infilarci quei mentini uno dopo succhiato l’altro, e lo sposo le sue quattro parole le aveva dette alla mula.
Ma passato Montezemolo lo sposo si voltò e le disse: «Voi adesso la smettete di mangiare quei gommini verdi», e Catinina smise, ma principalmente per lo stupore che lo sposo le aveva dato del voi.
Veniva su la luna, e dopo un po’ fu un mostro di vicinanza, di rotondità e giallore, navigava nel cielo caldo a filo del greppo della langa, come li volesse accompagnare fino in Liguria.
Catinina toccò il suo sposo e gli disse: «Guarda solo un momento che luna.»
Ma quello le si rivoltò e quasi le urlò: «Voi avete a darmi del voi, come io lo do a voi!»
Catinina non rifiatò, molto più avanti disse semplicemente che il li stello di legno l’aveva tutta indolorita dietro, dopo ore che ci stava seduta. E allora lui le parlò con una voce buona, le disse che al ritorno sarebbe stata più comoda, lui l’avrebbe aggiustata sugli stracci. Arrivarono a Savona verso mezzogiorno.
Lo sposo disse: «Quello lì davanti è il mare», che Catinina già ci aveva affogati gli occhi.

«Che bestione,» diceva Catinina del mare, «che bestione!»
Tutte le volte che pascolava le pecore degli altri in qualche prato sotto la strada del mare e sentiva d’un tratto sonagliere, si arrampicava sempre sull’orlo della strada e da lì guardava venire, passare e lontanarsi i carrettieri e le loro bestie in cammino verso il mare con grandi carichi di vino e di farine. Qualche volta li vedeva anche al ritorno, coi carri adesso pieni di vetri di Carcare e di Altare e di stoviglie d’Albisola, e si appostava per fissare i carrettieri negli occhi, se ritenevano l’immagine del mare.

Ora se lo stava godendo da due passi il mare, ma lo sposo le calò una mano sulla spalla e si fece accompagnare a stallare la bestia. Ma poi le fece vedere un po’ di porto e poi prendere un caffellatte con le paste di meliga. Dopodiché andarono a trovare un parente di lui.
Questo parente stava dalla parte di Savona verso il monte e a Catinina rincresceva il sangue del cuore distanziarsi dal mare fino a non avercene nemmeno più una goccia sotto gli occhi.
Ce ne volle, ma alla fine trovarono quel parente. Era un uomo vecchiotto ma ancora galante, e quando si vide alla porta i due ragazzi sposati fece subito venire vino bianco e paste alla crema ed anche dei vicini, ridicoli come lui.

Mangiarono, bevettero e cantarono, Catinina in quel buonumore prese a snodarsi e a rider di gola e ad ammiccare come una donna fatta, e teneva bene testa al parente galante ed ai suoi soci; lo sposo le era uscito di mente ed anche dagli occhi, non lo vedeva, seduto immobile, che pativa a bocca stretta e col bicchiere sempre pieno posato in terra fra i due piedi.
Quando si ritirarono per la notte in una stanza trovata dal parente, allora riempì di schiaffi la faccia a Catinina. E nient’altro, tanto Catinina non era ancora sviluppata.

Al mattino Catinina aveva per tutto il viso delle macchie gialle con un’ombra di nero, lo sposo venne a sfiorargliele con le dita e poi scoppiò a piangere. Proprio niente disse o fece Catinina per sollevarlo, gli disse solo che voleva tornare a Murazzano. E sì che si sarebbe fermata un altro giorno tanto volentieri per via di quel parente così ridicolo, ma ora sapeva cosa le costava il buon umore, e poi il mare le diceva molto meno.
Lo sposo caricò in fretta i suoi stracci, la fece sedere sul molle e tornarono.
La mattina dopo, il panettiere di Murazzano, che si levava sempre il primo di tutto il paese, uscito in strada a veder com’era il cielo di quel nuovo giorno, trovò Catinina seduta sul selciato e con le spalle contro il muro tiepido del suo forno.

«Ma sei Catinina? Sei proprio Catinina. E cosa fai lì, a quest’ora della mattina?»
Lei gli scrollò le spalle.

«Cosa fai lì, Catinina? E non scrollarmi le spalle. Perché non sei col tuo uomo?»

«Me no di sicuro!»
«Perché te no?»
Allora Catinina alzò la voce. «Io non ci voglio più stare con quello là che mi dà del voi!»
«Ma come non ci vuoi più stare? Invece devi stargli insieme, e per sempre. È la legge.»
«Che legge?»
«O Madonna bella e buona, la legge del matrimonio!»

Catinina scrollò un’altra volta le spalle, ma capiva anche lei che scrollar le spalle non bastava più, e allora disse: «Io non ci voglio più stare con quello là che mi dà sempre del voi. E poi che casa mi ha preparata che io c’entrassi da sposa? Una casa senza lume a petrolio e senza il poggiolo!» L’uomo sospirò, la fece entrare nel suo forno, disse piano al suo garzone: «Attento che non scappi, ma non beneficiartene altrimenti il mestiere vai a impararlo da un’altra parte», e uscì.
Quando tornò, c’era con lui l’uomo di Catinina. Col panettiere testimone, le promise il lume a petrolio per subito e di farle il poggiolo, tempo sei mesi.

Catinina il lume a petrolio l’ebbe subito, e poi anche il poggiolo, ma dopo un anno buono, che lei aveva già un bambino sulle braccia. Perché Catinina non era la donna che per aver la grazia dei figli deve andarsi a sedere sulla santa pietra alla Madonna del Deserto e pregare tanto.

Questo primo figlio, dei nove che ne comprò nella sua stagione, l’addormentava alla meglio in una cesta e poi subito correva sotto l’ala a giocare a tocco e spanna con quei maschi di prima. Dopo un po’ il bambino si svegliava e strillava da farsi saltare tutte le vene, finché una vicina si faceva sull’uscio e urlava a Catinina:

«O disgraziata, non senti la tua creatura che piange? Vieni a cunarlo, o mezza zingara!»
Da sotto l’ala Catinina alzava una mano con una bilia tra il pollice e l’indice e rispondeva gridando: «Lasciatemi solo più giocare questa bilia!»

Beppe Fenoglio

Ma il mio amore è Paco

Era propriamente un cugino secondo di mio padre, ma io lo chiamavo convintamente zio. Mio padre aveva un debole per Paco, nessuno dei suoi parenti rimasti sulle langhe gli andava a sangue quanto lui. Mia madre invece: – È un Fenoglio integrale, – diceva, – e fa il negoziante di bestiame. Mescolate la razza col mestiere e ne avrete una mistura da far rizzare i capelli in testa.
Mia madre veniva dal più clericale dei clericali paesi dell’Oltretanaro, da una gente che aveva per bandiera proprio quello che i Fenoglio, secondo lei, si mettevano facilmente sotto i piedi: il timor di Dio e l’onore del mondo. E con questa opinione doveva ora consentire che io andassi in vacanza dallo zio Paco per un mese intero. Ricordo che si passò una mano davanti agli occhi, forse per cancellare l’apparizione di Paco nella sua tenuta ordinaria per marcati e fiere: in camicia a disegni di fiori e frutta, corpetto grigioferro, squadrato e con tanti taschini incolonnati da somigliare a un mobiletto per ufficio, calzoni rosso mattone e scarpe polacchine della medesima tinta. I calzoni erano talmente attillati allo stinco che mio padre giurava che Paco ogni notte per svestirli doveva necessariamente svitarsi i piedi. 
Mio padre ridacchiò polemico. – Il ragazzino, – disse di me, – è un Fenoglio spaccato. Ti piaccia o no, è tutto dei miei. Piglialo negli occhi, piglialo nel naso.
E mia madre: – Che di fuori sia dei tuoi è un fatto lampante e in fondo non ne sono scontenta perché belli non siete ma avete tante particolarità che piacciono. Di dentro però, nell’anima, non è ancor detto che sia dei tuoi, e io spero e prego che no. Ma se noi a ogni estate continuiamo a mandarlo sulle langhe, per forza finirà col farsi un’anima Fenoglio, anche se alla nascita non ce l’aveva.
Quanto a me, debbo dire che quella miscela di sangue di langa e di pianura mi faceva già da allora battaglia nelle vene, e se rispettavo altamente i miei parenti materni, i paterni li amavo con passione, e, quando a scuola ci accostavamo a parole come «atavismo» e «ancestrale» il cuore e la mente mi volavano subito e invariabilmente ai cimiteri sulle langhe.
Mia madre già l’aveva intuito e nel suo intimo si era già rassegnata a quella mia pericolosa vacanza presso lo zio Paco, facendo affidamento, per l’immunizzazione, su quelle gocce di sangue suo che circolavano un po’ sperdute nelle mie vene. Ma anche quando la mia vacanza era irrevocabilmente decisa, non perse occasione di criticare Paco. -Basti vedere i torti che fa a sua moglie Giulia-. Ribatteva mio padre che bisognava metter sulla bilancia anche le scarse soddisfazioni che Giulia gli aveva dato; non aveva saputo regalargli un figlio, uno solo, fosse pure una femminuccia…
Una delle mie prime sere nella loro casa di Feisoglio – l’ultima uscendo dal paese verso Niella, affacciata sullo stradone con un muro senza vuoti, simile al mendicante cieco appostato sulla via della fiera – li sentii litigare proprio su questo argomento.
Con la sua voce sempre uguale ma sostenuta diceva la zia Giulia: – Resta sempre a vedere se il difetto è in te o in me. – Guardami bene, Giulia, – sbuffava lo zio, – e poi guardati bene te, nello specchio o in quell’ingrandimento che ti ha fatto il fotografo di Cortemilia. Il difetto è in te, un cieco vedrebbe che il difetto è in te. Io ho tanta sostanza che tu avresti fatto tini e tini d’uva se non fossi, come sei, una vite secca.
- E io dico che il difetto è in te. E si faccia una buona volta quello che non abbiamo voluto fare in sedici anni. Portami a Alba o a Mondovì, fammi visitare dal primo medico di laggiù e verrà finalmente in chiaro…
- Mai e poi mai, – l’interruppe Paco: – io non ti porterò mai a Alba o a Mondovì, per non far vedere a un grand’uomo com’è mal fatta mia moglie. Io ho ancora questa goccia di orgoglio.
- Non uscirmi con l’orgoglio, Paco. Voialtri Fenoglio avete solamente vanagloria. Io invece, io dei Saglietti, ne ho di orgoglio, di quello vero e genuino, anche se tu le hai studiate tutte per farmelo svanire. Ne ho di orgoglio, e credi pure che non mi va per niente di mostrare come son dentro. Ma per convincerti passo sopra all’orgoglio e son prontissima a sopportare l’eventuale dolore.
- Tu sei matta, – sospirò Paco, – e io dovrei ricordarmi più spesso che tuo nonno si buttò nel pozzo.
- Sei un feroce, Paco, un malvagio feroce a tirare in ballo il mio nonno disgraziato. Restiamo al difetto. Il quale è in te. E non è che tu ci sia nato, ma ti è venuto dopo, a poco a poco, a forza di smidollarti con tutte le sudice delle langhe alte e basse.
A questo punto zio Paco sputò il sigaro, con un pugno si calcò il cappello in testa e andò all’osteria. La padrona era amica sua e ogniqualvolta arrivava Paco o un ruffianello glielo dava per strada, piantava clienti, tavoli e fornelli e correva sopra a cambiarsi le calze, di cotone in seta. Era sempre un paio nuovo di scatola, ma dopo una strizzata di Paco diventavano un pugnetto di rovine e l’ostessa le gettava sul letamaio o le ficcava nella stufa accesa, se d’inverno.
Ne aveva una per paese, o più esattamente una per ogni cantone d’ogni paese. Le riceveva nella stalla dove aveva ritirato i bovini trattati nella giornata o addirittura nel suo furgone stazionato sotto le stelle. Era anche l’amico di una maestra, sui trent’anni, che insegnava in una borgata tra Niella e Mombarcaro e si era messa con Paco perché lo trovava l’unico uomo passabile che battesse i dintorni. Il pievano forse era anche meglio lui, ma con un prete quella maestra non voleva assolutamente farsela. La zia Giulia sapeva di questa maestra, e le bruciava più di ogni altra, non potendo in coscienza considerare una maestra con tanto di patentino alla stessa stregua di una lurida qualunque che facesse per finta la maglierista o la pettinatrice. Tanto più le bruciava in quanto, per certe affinità, le rinnovava l’angoscia che le aveva causato sedici anni prima Jeanna, che adesso era la moglie del Podestà. Jeanna, Paco oggi non l’avrebbe più toccata nemmeno col suo pungolo: dopo quattro figli era invecchiata e imbruttita da far senso, l’occhio lacrimoso, sdentata, ciondolante, e le gambe che aveva avute bellissime o, come diceva Paco, da premio, le si erano rinsecchite al punto che la calza la più aderente le faceva ragnatela intorno al polpaccio. Ma per causa di Jeanna, in gioventù, Giulia aveva perduto il sonno e quasi la ragione. Jeanna era bella almeno quanto lei, sul medesimo tipo e con in più un tocco di Francia (era nata a Tolone) e fino all’ultimo le aveva disputato il giovanotto che era mio zio. Poi Paco si decise per Giulia Saglietti e un mese dopo il parroco leggeva dal pulpito l’annunzio di Jeanna e Adolfo Cerrato, che sarebbe poi diventato Podestà. Ma il mattino delle nozze – e questo a Feisoglio lo risapevano anche le bambine – alle amiche che le acconciavano il velo Jeanna, bianca e molle come cera, aveva detto: – Sposo Adolfo, ma il mio amore è Paco.
Zia Giulia però molto probabilmente non sapeva l’ultima, che io invece conoscevo dal figlio del cantoniere-sacrestano, un perticone di quasi vent’anni che parlava con me di certe cose e con una tale brutalità quasi che io fossi, come lui, maturo per andar soldato. A sentir lui, proprio in quell’anno della mia vacanza a Feisoglio (1934), Paco aveva preso a lavorarsi Gemma, la figlia della privativa, una ragazza di non ancora vent’anni, bionda e paffuta, beffarda e lucida, di cui si diceva che Paco avesse detto: – Dev’essere più bella lei nuda e cruda che io vestito da fiera grande con la catena d’oro sul panciotto -. Questa Gemma si era già fissata di non sprecarsi in riva a Belbo con coetanei, sbarbatelli furiosi, malpratici e spiantati che magari ti mettevano al primo colpo nella condizione di farti poi sbrogliare, a suon di bigliettoni, dalla levatrice di Murazzano o di Dogliani. Meglio farlo, già che non ci resisteva e era convinta che l’anima non ci andasse di mezzo, meglio farlo con un uomo maturo e esperto, di presenza di prestigio e di finanze tal quale mio zio Paco. Pare rimanessero su questa intesa. L’agosto prossimo Gemma andava ai bagni, per la prima volta in vita sua, al mare di Savona. Paco le fece credere che il mare di Savona era brutto e vile per via del porto e che l’andarci per i bagni equivaleva ad appendersi al collo un cartello con sopra scritto «cafona e miserabile». Al che Gemma aveva subito bocciato Savona, o meglio ci sarebbe passata solo per trovare mio zio davanti alla stazione su una bella macchina di noleggio. Avrebbero fatto con comodo la Riviera e forse una puntata a Montecarlo.
Una sera di luglio, nell’ultima settimana della mia vacanza, Paco partì per Rocchetta nella bassa langa per comperarvi l’indomani una coppia di manzi. Partì con diversi biglietti da mille e sulla sua 501 furgonata che, specie in salita, mandava un rombo che andava a bussare a tutte le porte dell’orizzonte. A Rocchetta mio zio aveva un corrispondente o simile, certo Maggiorino Negro, che Paco nominava abbastanza spesso nei suoi discorsi a casa.
Juccia, la moglie di Maggiorino, voleva dargli da cena, lagnandosi solo che non avesse preavvisato, ma Paco aveva già cenato per strada e benissimo.
Disse Juccia: – E come sta Giulia? Come si diventa mai! Quattro colline appena e finiamo col vederci una volta ogni morte di vescovo.
Paco rispose che la zia stava bene, solo stava imbiancando di capelli, e Juccia se ne stupì perché ricordava Giulia mora come una zingara, e mio zio, addentando il sigaro, brontolò: – È appunto lo scherzo che ti giocano le brunacce.
Poi Maggiorino aveva sviato il discorso sapendo che Paco non lo gradiva.
- E che fate la sera a Rocchetta?
- Stasera giocano da Madama, – rispose Maggiorino con aria di disapprovazione.
- Vapore? Tu giochi?
- Dio scampi! – disse Juccia per suo marito.
- Io no, io non gioco mai, – riprese Maggiorino. – A parte ogni altra considerazione, io sono dell’avviso che il gioco non è per noi negozianti. Il gioco è per i proprietari e i lazzaroni.
- È così, – disse Juccia, che si piccava di intendersi di commercio quanto i più furbi uomini sulla piazza. – Se perdi ti sparisce il liquido. Ora i proprietari, dei lazzaroni nemmeno voglio parlare, i proprietari per un po’ possono fare a meno dei liquido, mentre noi negozianti…
Mio zio non la sentiva. Stava fissandosi sul gioco, stava meditando che in un paio d’ore e con un pizzico di fortuna avrebbe potuto spesarsi della Riviera con Gemma.
- Giocano forte?
- Sempre sostenuto e qualche volta da far spavento. Questa, per esempio, mi pare una sera che qualcuno ne uscirà scuoiato come San Bartolomeo. L’ultima volta un proprietario di Prunetto…
Con una ondata di fortuna poteva offrire a Gemma il doppio, il triplo del preventivato, abbagliarla col lusso e così legarsela anche per l’autunno e l’inverno. Aveva molte probabilità di vincere, anzi avrebbe vinto senza fallo. Non giocava, sul serio, da almeno una decina d’anni, era come se si fosse rifatto una verginità, e chi gioca per la prima volta vince invariabilmente.
- Maggio? Andiamo a bere il caffè da Madama.
Juccia, quando seppe che andavano e lei non poteva impedirlo senza sfigurare, disse a suo marito: – Ma non così. Sali a metterti la giacca, la giacca nuova di alpaga.
- Fa caldo, – protestò Maggiorino. – Vedi Paco com’è sbracciato.
- Paco non è mio. Tu sei mio e voglio che ti metti la giacca.
Si scusarono per un minuto e salirono in camera da letto.
- Ti voglio parlare, – disse lei aprendo l’armadio.
- L’ho capito, ma parla sottovoce, – e Maggiorino indicò le fessure dell’impiantito.
- Paco giocherà.
- Non è detto.
- Paco giocherà.
- Questa mi fai mettere? – si lagnò forte Maggiorino. – È pesante. D’alpaga o d’altro, è pesante.
- È bellissima, è di-stin-ta. Infila, non fare storie -. E poi: – E se perde?
- Affar suo.
- Non ti chiederà un imprestito?
- Non Paco. Paco non si è mai fatto prestare da nessuno. Se perde, perde i suoi e veniamo a dormire.
- Comincia col darmi il mille lire che tieni per sfoggio nel portafogli.
- Nossignora, me lo tengo.
- Dammelo, ti levo la tentazione.
- Non c’è tentazione per me. Il gioco mi fa solo schifo e spavento.
- Maggiorino, consegnami quella carta da mille.
- No, stavolta non la spunti. E se insisti mi fai capire che non ti fidi.
- Mi fido e non mi fido. Mi fiderei se ci andassi solo.
- Tu non conosci Paco.
- Paco non è mio. Maggiorino, ridammi.
- Niente affatto, me lo tengo. Del resto sei tu che vuoi che io giri sempre con una carta da mille nel portafogli.
- Certo, – disse Juccia, – perché desidero che tu faccia sempre una figurona. Quando cerchi gli spiccioli, allarghi bene il soffietto e la gente può vedere bene che ci tieni una carta da mille come se niente fosse.
- Se però osassi solamente cambiarlo, tu mi caveresti gli occhi.
- Ci puoi giurare.
- Bene, – disse Maggiorino, – stasera, pagando il caffè da Madama, tutti vedranno il tuo uomo con una carta da mille nel portafogli come se niente fosse. Ma ora lasciami andare, Juccia, o Paco si offende. E Paco per me è troppo importante.
- Va’, ma ricordati del cugino Gelindo.
Lui si arrestò netto, come raggiunto da una pallottola. Torse sopra la spalla la faccia torva e: – A me non farlo il discorso di Gelindo! 
- sibilò.
- Te lo ricordo semplicemente, – disse lei imperterrita. – Suo padre tuo zio gli aveva lasciato la più grossa cascina su questa riva di Belbo. Per il gioco finì vestito degli stracci del prossimo e tirò le cuoia in un fosso. E, ti ricordi? Sbrigarsi a sotterrarlo o i pidocchi lo divoravano prima.
- Non farlo a me il discorso di Gelindo, – ripeté lui, meno brutto, e finalmente scese.
L’osteria di Madama era la casa meglio illuminata di tutto il paese, davanti alle sue finestre in grigliate vorticava puzzando il grosso delle falene di Belbo.

E un bel dì ero nel tempio 
Del Signor, oh del Signor,
E la si sentiva una voce armonica
Oh che mi dava la vita al cuor!…

Mio zio si aggrottò. – Da Madama fanno i cori. Com’è possibile che si giochi con una cagnara simile?
- Come il gioco comincia Madama li fa smettere, – lo rassicurò Maggiorino.
Il locale era zeppo, di gente che non dava il passaggio nemmeno a sfondarle la schiena. La tavolata del coro stava nell’angolo più oscuro. Cantavano alla cima della voce e del sentimento, perdutamente, abbrancandosi al tavolo, strabuzzando gli occhi, musando come buoi tra le bottiglie e le lattine dei biscotti. Cantavano e sembrava che chiedessero una enorme vendetta o protestassero la loro innocenza davanti a un tribunale capitale.
- Mezzadri della langa di Bòsia, – disse Maggiorino, – pidocchi canterini. Quando avranno pagato a Madama quel poco vino e quei vafers stantii resteranno senza un soldo fino alla vendemmia, – e alzando la voce ordinò due caffè con schizzo di persico.
Bevendo il caffé mio zio cercava con gli occhi l’accesso al locale da gioco e Maggiorino gli spiegò che si giocava al piano superiore e si passava per il cortile.
- Posso presentarti Madama?
- Mai rifiutato di conoscere una signora, – scherzò Paco ben sapendo che Madama era maschio.
- A che ora parte il vapore, Madama?
- Fischia tra dieci minuti. Se vi interessa, vi accompagno subito alla stazione, – e Madama fece strada nel cortile.
Nel chiaro della lampada dello stallaggio stava una 509 con sopra seduto un giovanotto pallido e affilato, con un’aria di chierico scappato di seminario. La vettura, mormorò Madama, apparteneva al giocatore Racca e il giovanotto era il suo segretario personale.
- Che sia un professionista si sa, – disse mio zio, – ma del segretario che se ne fa? Lo fa giocare al suo posto, si fa dare il cambio?
Madama spiegò che il giovanotto gli teneva esclusivamente la contabilità, perché Racca era analfabeta e in più confondeva le banconote.
Si giocava in una sala stretta e lunga, bene spruzzata di liquido moschicida, con due finestre accecate da pesanti tendaggi, in centro il tavolo verde (tavolo operatorio lo chiamava Paco) e su di esso un vassoio di argentone col doppio mazzo di carte. Sei posti erano già occupati e molti curiosi, col beneplacito di Madama, tappezzavano le pareti.
Mio zio si sedette e infilata una mano nel corpetto sganciò la catenella che assicurava il portafogli. Maggiorino gli si era collocato alle spalle, sfiorava con la testa il ritratto della vecchia Madama.
Madama figlio sparì per un attimo e il coro al piano di sotto ammutolì.
Cominciò il giro. I grossi erano, oltre il professionista Racca, un vecchio asciutto, con capelli e pizzetto bianchi come neve, che tutti chiamavano colonnello, e un proprietario di Valdivilla, grosso e acceso, il quale a ogni giocata faceva commenti spiritosi e perdeva con gusto. Gli spettatori ridevano a ogni sua battuta, mentre stavano in soggezione del colonnello e letteralmente incantati davanti al Racca. Questi era un vecchietto anchilosato e barbogio, così piccolo che Madama gli aveva impilato sulla sedia due cuscini come si fa per un bambino ammesso alla tavola dei grandi. Oltre a questi e a Paco c’erano tre altri giocatori, ma pidocchietti, che giocavano al minuto.
Ci fu un paio di smazzate. Paco perdeva, malgrado la sua capacità di calcolo Maggiorino non poteva dir quanto, e perché è sovrumano seguire il gioco in tutti i suoi alti e bassi e perché mio zio teneva non sul tavolo ma in grembo il suo mucchio di denaro.
Finalmente il banco gli diede tre colpi buoni. Il colonnello glielo batté, solo ed intero. Paco ebbe paura e lo passò, voltandosi colse negli occhi di Maggiorino un lampo di approvazione. Racca offrì per il banco e se lo aggiudicò. Vinse ancora e mio zio bestemmiò grosso. Ma non aveva fede in quel banco e gli puntò contro un terzo della vincita che gli aveva procurato. Vinse ancora il banco. Paco gli ripuntò contro il doppio e riperse. Ripuntò mille lire e quel banco infernale diede il sesto colpo favorevole. Il colonnello crollava impercettibilmente la testa in direzione di mio zio, il quale: «Sto rovinandomi contro il mio banco buono! – urlava dentro di sé. – Un banco che bastava per Gemma e… e quel deficiente cornuto di Maggio che m’ha approvato!»
Madama controllò che rimanesse un’ultima mano nel mazzo agonizzante. Paco ripuntò le sue ultime duecento lire e riperse. Le orecchie gli ronzavano, ma senza impedirgli di cogliere i commenti di certi spettatori.

 

Beppe Fenoglio

Un giorno di fuoco

Passano gli anni ma la storia noi non la scordiamo
rimane impresso lo sguardo di ogni partigiano
e di ogni forma di oppressione che subiamo
grazie a quell’esempio si sconfigge se vogliamo

Un giorno di fuoco nella mia città
sempre viva è la memoria della lotta
storia di un popolo unito,
sotto il fuoco nemico
e la vittoria di chi ha opposto Resistenza
è un altro giorno di fuoco e non dimentico
chi ha combattuto per la giustizia e la libertà
oggi so che non si può vivere senza
ora e sempre Resistenza

Now I say: one shot to awake my people
and the history wins
two shots and deliver me

Perso la memoria e quando giro per la mia città
ogni via corso e piazza mi riporta a quei giorni là
c’è scritto sopra il nome di chi ha
combattuto per regalarmi la libertà
Valori che mi porto dentro, senza tempo
quando ci penso so che grazie a quell’insegnamento
canto combattendo con l’unica arma che ho
Geniali dilettanti in selvaggia parata.
Ragioni personali resta una questione privata
Ho imparato che il fascismo è
un male da sconfiggere anche oggi come nel 43
censura in TV, propaganda sui giornali
croci uncinate, razzismo dentro agli stadi
rappresaglia in piazza, violenza leggi razziali
ignoranza spiazza gli ideali degli italiani
e io una mattina mi son svegliato
ed ho trovato l’invasore
entra dalla televisione
pareva parlasse da piazza Venezia
affacciato ad un balcone
stessi ideali ma diverse favole e colore
e stesso stato di ipnosi tra le persone
già molte le analogie, preoccupazione
e l’opposizione, è la storia che me lo insegna
ora e sempre Resistenza

Now I say:
Un giorno di fuoco nella mia città
sempre viva è la memoria della lotta
storia di un popolo unito,
sotto il fuoco nemico
e la vittoria di chi ha opposto Resistenza
è un altro giorno di fuoco e non dimentico
chi ha combattuto per la giustizia e la libertà
oggi so che non si può vivere senza
ora e sempre Resistenza
Now I say

E se l’Italia adesso è
un libera repubblica fondata sul lavoro
so che devo ringraziare solo loro
che han combattuto al Sud o sopra le montagne
contro il mitra dei tedeschi e contro il freddo delle Langhe
nonostante tutto accadde neanche 70 anni fa
c’è ancora troppa gente che se ne dimentica
basta guardare oggi come ci si comporta
e immaginarsi ogni caduto rivoltarsi nella tomba
vergogna, hai la memoria corta
la storia non si scorda
la nostra ci racconta che l’unione fa la forza
e ce ne volle molta per mandarli via
Davide contro Golia,
libertà come utopia
e che io sia
custode del passato
per mantenere vivo ancora il suo significato
perciò sarà come Calamandrei:
ora e sempre Resistenza
anche dentro i giorni miei

Un giorno di fuoco nella mia città
sempre viva è la memoria della lotta
storia di un popolo unito,
sotto il fuoco nemico
e la vittoria di chi ha opposto Resistenza
è un altro giorno di fuoco e non dimentico
chi ha combattuto per la giustizia e la libertà
oggi so che non si può vivere senza
ora e sempre Resistenza
Now I say

Un giorno di fuoco nella mia città
sempre viva è la memoria della lotta
storia di un popolo unito,
sotto il fuoco nemico
e la vittoria di chi ha opposto Resistenza
è un altro giorno di fuoco e non dimentico
chi ha combattuto per la giustizia e la libertà
oggi so che non si può vivere senza
ora e sempre Resistenza.

 

Beppe Fenoglio

Pioggia e la sposa

Fu la peggior alzata di tutti i secoli della mia infanzia. Quando la zia salì alla mia camera sottotetto e mi svegliò, io mi sentivo come se avessi chiusi gli occhi solo un attimo prima, e non c’ è risveglio peggiore di questo per un bambino che non abbia davanti a sé una sua festa o un bel viaggio promesso. La pioggia scrosciava sul nostro tetto e sul fogliame degli alberi vicini, la mia stanza era scura come all’alba del giorno. Abbasso, mio cugino stava abbottonandosi la tonaca sul buffo costume che i preti portano sotto la veste nera e la sua faccia era tale che ancor oggi è la prima cosa che mi viene in mente quando debbo pensare a nausea maligna. Mia zia, lei stava sull’uscio, con le mani sui fianchi, a guardar fuori, ora al cielo ora in terra. Andai semisvestito dietro di lei a guardar fuori anch’io e vidi, in terra, acqua bruna lambire il primo scalino della nostra porta e in cielo, dietro nubi nere e gonfie come dirigibili ormeggiati agli alberi sulla cresta della collina dirimpetto. Mi ritirai con le mani sulle spalle e la zia venne ad aiutarmi a vestirmi con movimenti decisi. Ricordo che non mi fece lavare la faccia. Adesso mio cugino prete stava girandosi tra le mani il suo cappello e dava fuori sguardate furtive, si sarebbe detto che non voleva che sua madre lo sorprendesse a guardar fuori in quella maniera. Ma lei ce lo sorprese e gli disse con la sua voce per me indimenticabile: «Mettiti pure il cappello in testa, ché andiamo. Credi che per un po’ d’acqua voglio perdere un pranzo di sposa?». «Madre, questo non è un po’ d’acqua, questo è tutta l’acqua che il cielo può versare in una volta. Non vorrei che l’acqua c’entrasse in casa con tutti i danni che può fare, mentre noi siamo seduti a un pranzo di sposa». Lei disse: «Chiuderò bene». «Non vale chiuder bene con l’acqua, o madre!». Non è l’acqua che mi fa paura e non è per lei che voglio chiudere bene. Chiuderò bene perché ci sono gli zingari fermi coi loro cavalli sotto il portico